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L’importanza di trasformare il cibo
Fin dai primordi dell’umanità, la nostra specie ha affrontato la difficoltà di procacciarsi del cibo commestibile. In quanto onnivora, la specie umana manca infatti delle tipiche caratteristiche fisiche del predatore carnivoro o delle capacità digestive degli animali erbivori.
Nel corso della sua evoluzione, dunque, ha sviluppato ogni genere di mezzo, strumento e tecnologia per poter lavorare e trasformare il proprio cibo.
Se le modalità si sono evolute enormemente, le finalità della lavorazione del cibo rimangono essenzialmente le stesse:
- conservare, ossia prolungare la durata del cibo, ritardandone il deterioramento, in modo da poterlo avere in momenti di carenza e trasportare per lunghe distanze;
- garantirne la sicurezza, cioè rimuovere tutti i pericoli per la salute umana, come microrganismi patogeni, contaminanti e tossine;
- godere della qualità, ovvero rallentare il naturale declino delle caratteristiche qualitative del cibo – come il sapore, l’aroma, il colore, la consistenza, il contenuto nutritivo – o addirittura incrementarle;
- rendere il cibo disponibile, ossia fare in modo che chiunque abbia a disposizione un’ampia gamma di cibi in qualsiasi momento;
- essere sostenibile, cioè usare efficientemente le risorse necessarie a produrre il cibo, riducendo le perdite e gli sprechi post-raccolto e riutilizzando i sottoprodotti;
- avere comodità, ovvero poter consumare il cibo senza impiegare troppo tempo nel reperirlo e prepararlo;
- e infine – più recentemente – perseguire il benessere e la salute, ossia incrementare il valore nutrizionale degli alimenti in risposta a specifici bisogni del consumatore [1].
Gli effetti della lavorazione sul valore nutrizionale e la spinta all’innovazione
Negli ultimi 50 anni l’industria alimentare ha rivolto la maggior parte delle proprie risorse nello sviluppo di prodotti che primeggiassero soprattutto negli aspetti della comodità e della qualità (in particolare la palatabilità). Solo negli ultimi anni vi è stato un maggiore interesse verso l’aspetto salutistico. E contestualmente si è acceso un forte dibattito sull’impatto che la lavorazione del cibo ha sul suo contenuto nutrizionale [2].
Com’è noto, infatti, la trasformazione della materia prima alimentare può portare a un peggioramento delle sue caratteristiche nutrizionali, o attraverso la distruzione di nutrienti utili e positivi o tramite l’aggiunta/formazione di sostanze/ingredienti non salutari o ipercalorici. Tendenzialmente, più si estende la shelf life di un prodotto alimentare più è probabile una diminuzione del suo valore nutrizionale [3].
Ovviamente, fra tutte le finalità elencate nel capitolo precedente, l’aspetto della sicurezza rimane quello essenziale, da cui non si può prescindere quando si effettua una trasformazione alimentare [2].
Tuttavia, durante ogni singola operazione di lavorazione può esserci un conflitto fra l’ottenimento di un cibo sicuro e la conservazione delle sue caratteristiche nutrizionali. Un chiaro esempio è il processo termico.
Il calore è necessario non solo per la cottura della materia prima cruda (dunque per ragioni di qualità organolettica e digeribilità), ma serve anche per distruggere i microbi e inattivare enzimi e tossine (dunque per soddisfare i criteri di sicurezza e conservazione). Il processo termico, tuttavia, può ridurre la qualità nutrizionale del prodotto, in particolare tramite la distruzione di alcune vitamine (come la vitamina C).
Questa perdita, tuttavia, può essere ridotta tramite una combinazione oculata dei fattori temperatura e tempo [4]. Inoltre, se da una parte il processo termico può avere un effetto negativo sulle vitamine, dall’altra può anche ridurre alcuni composti anti-nutrizionali (come ad esempio l’acido fitico) o rendere alcuni nutrienti più facilmente digeribili e accessibili agli enzimi digestivi (come nel caso dei carotenoidi in una matrice vegetale) e dunque in questo caso incrementare il valore nutrizionale del prodotto [3].
Alcune tecnologie emergenti, dette “mild technologies” si pongono l’obiettivo di ottenere gli stessi risultati delle precedenti tecnologie in termini di sicurezza e conservazione del prodotto, ma con un minor impatto negativo sulla sua qualità nutrizionale (e spesso anche organolettica) del prodotto.
Inoltre, generalmente richiedono un minor input di energia, dunque hanno un impatto minore anche sull’ambiente. Esempi sono la luce ultravioletta pulsata, il campo elettrico pulsato, l’alta pressione, il plasma freddo, il riscaldamento ohmico e la pastorizzazione con fluido supercritico [5].
Il dibattito sugli “ultra-processed foods”
Per moltissimo tempo, gli ambiti scientifici delle tecnologie alimentari e della nutrizione sono rimasti essenzialmente separati. Oggi è necessario però adottare un punto di vista multidisciplinare [4], se si vuole far fronte alle attuali sfide che il sistema alimentare ci pone di fronte, come: ridurre la densità calorica di alcuni cibi per contrastare “l’epidemia di obesità”; ridurre il quantitativo di sodio e zuccheri semplici nei prodotti pur garantendone una buona palatabilità per far fronte all’incedere delle malattie cardiovascolari e del diabete; preservare il contenuto di vitamine, minerali e composti bioattivi benefici delle materie prime [5].
Negli ultimi anni il dibattito scientifico si è focalizzato soprattutto sui cosiddetti “ultra-processed foods” (cibi ultra processati), ossia i prodotti industriali “altamente lavorati”, ritenuti la causa dell’incessante aumento delle patologie non trasmissibili correlate allo stile alimentare. In particolare, recentemente ha fatto discutere la “NOVA classification”, una classificazione degli alimenti realizzata da un team di studiosi brasiliani per aiutare i consumatori a compiere scelte salutari, classificazione fatta in base non alla natura dell’alimento, ma solo a quanto questo sia stato trasformato (e per quale scopo) [6].
Tralasciando la lunghissima discussione a riguardo, va detto che i cibi altamente trasformati hanno sicuramente una maggiore probabilità di avere un’elevata densità calorica, di essere ricchi di sale e zucchero e poveri di fibre e micronutrienti; tuttavia, procedere esclusivamente con l’equivalenza “più lavorazione = meno salute” è tanto sbagliato quanto pericoloso.
Il tipo e l’entità della lavorazione di un prodotto alimentare non correla con il suo contenuto nutrizionale.
Un chiaro esempio: gli attuali metodi di sanificazione del latte (come la pastorizzazione HTST e la sterilizzazione UHT) portano a una perdita di nutrienti positivi molto inferiore di quella data delle tecnologie passate di pastorizzazione e sterilizzazione [5]. E questa perdita è ancora minore se la si paragona ai metodi casalinghi di bollitura del latte (che adotterebbe ad esempio un consumatore che acquista latte crudo, pensando di avere un prodotto nutrizionalmente più sano).
Altro esempio: la verdura surgelata ha generalmente un contenuto di micronutrienti maggiore rispetto al prodotto fresco conservato a temperatura ambiente per diversi giorni, eppure generalmente il consumatore ritiene “più sano” il prodotto fresco e meno sano quello surgelato. Questo è dato anche dal fatto che le tecnologie utilizzate dall’industria alimentare sono poco conosciute dalla popolazione generale e dunque “guardate con sospetto” poiché non comprese. In altre parole, non è possibile valutare l’adeguatezza nutrizionale di un prodotto semplicemente basandosi sul numero di unità di processo di lavorazione che ha subito [3].
La popolazione mondiale cresce a ritmi incalzanti e la maggiore sfida del futuro dei nostri sistemi alimentari, sarà avere cibo sufficiente (e sano) per tutti.
Chi crede che sia possibile soddisfare le esigenze nutrizionali e di salute di tutta la popolazione mondiale esclusivamente attraverso cibo fresco, km 0, non trasformato ha una visione abbastanza illusoria e distorta della realtà.
Il food processing è necessario. In particolare, nei paesi in via di sviluppo: uno studio approfondito delle migliori tecnologie alimentari per sanificare, conservare e distribuire il cibo – insieme ovviamente, a riforme sociali ed economiche – può sicuramente contribuire ad alleviare l’attuale condizione di insicurezza alimentare e malnutrizione.
Conclusioni
Il nostro corpo reagisce essenzialmente ai nutrienti che il cibo gli apporta e non alle trasformazioni che quest’ultimo ha subito. Inoltre, non sono i singoli cibi a determinare l’impatto della dieta sulla salute, ma il nostro stile alimentare nella sua interezza.
[1] FLOROS J.D., NEWSOME R., FISHER W. Feeding the World Today and Tomorrow: The Importance of Food Science and Technology, in Comprehensive Reviewsin Food Science and Food Safety 9 (2010): 572-599 doi 10.1111/j.1541-4337.2010.00127.x
[2] KNORR D. AND WATZKE H. Food Processing at a Crossroad, in Front Nutr 6, 85 (2019). DOI 10.3389/fnut.2019.00085
[3] FARDET A., ROCK E., BASSAMA J., BOHUON P., PRABHASANKAR P., MONTEIRO C., MOUBARAC J., ACHIR N. Current Food Classifications in Epidemiological Studies Do Not Enable Solid Nutritional Recommendations for Preventing Diet-Related Chronic Diseases: The Impact of Food Processing, in American Society for Nutrition. Adv Nutr 6 (2015):629–38. DOI 10.3945/an.115.008789
[4] HENRY C. J. K. AND CHAPMAN C. The nutrition handbook for food processors. published by Woodhead Publishing Limited, Abington Cambridge CB1 6AH, England (2002)
[5] WEAVER CM, DWYER J, FULGONI VL, KING JC, LEVEILLE GA, MACDONALD RS, ORDOVAS J AND SCHNAKENBERG D. Processed foods: contributions to nutrition, in Am J Clin Nutr 99 (2014): 1525–42
[6] MONTEIRO CA, CANNON G, LEVY R, MOUBARAC J, JAIME P, MARTINS AP, CANELLA D, LOUZADA M, PARRA D. NOVA. The star shines bright [Food classification. Public health], in World Nutrition 7, 1-3 (2016): 28-38.
Elena Ferrero
Ho 26 anni, ho conseguito la laurea triennale in Dietistica (2015), magistrale in Scienze degli Alimenti e della Nutrizione Umana (2017), titolo di alta formazione alla Scuola di Studi Superiori Ferdinando Rossi (2018) e un master di II livello in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Nutrizione Umana – Michele Ferrero (2019).