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Cibo, dipendenza e cervello
Può un cibo dare dipendenza? Può qualcosa fondamentale per la sopravvivenza diventare tossica e segnalare un disagio?
L’Istituto Superiore di Sanità cita, tra le dipendenze comportamentali, anche la dipendenza da cibo, individuandola come un fattore di rischio per la salute pubblica.
Il nostro cervello è estremamente sensibile agli stimoli che producono una gratificazione.
Il sistema della ricompensa è una parte primitiva del nostro cervello, esiste per farci cercare ciò di cui abbiamo bisogno.
Il sistema della ricompensa è una parte primitiva del nostro cervello, esiste per farci cercare ciò di cui abbiamo bisogno.
In un mondo che offre opportunità di esaudire desideri 24 ore su 24, il sistema che ci spinge a ricercare piacere e gratificazione ci può far cadere in trappola.
Come funziona il circuito del piacere e della gratificazione connesso al cibo?
Un’esperienza, come quella dell’assaggiare un cibo, quando raggiunge un determinato livello di piacevolezza, viene marcata dalla dopamina, memorizzata e ricercata per essere ripetuta.
La dopamina è un neurotrasmettitore, rilasciato da Sostanza Nera e Area Tegmentale Ventrale, coinvolto in alcuni processi fondamentali quali la ricerca di esperienze ad alto valore emotivo e di piacere, l’apprendimento e la memorizzazione.
Il cibo è una di quelle esperienze che determina piacere e stimola il desiderio.
Approfittando della straordinaria plasticità del cervello, la dipendenza riplasma i circuiti neurali per attribuire un valore altissimo adalcune sostanze o comportamenti a scapito della salute o della vita stessa.
La dipendenza è una forma patologica di apprendimento [2] che segna il passaggio di un comportamento da semplice o comune abitudine, alla ricerca esagerata e patologica del piacere in una modalità che ha effetti negativi sulla salute psico-fisica, sulle relazioni e sulla funzionalità generale.
La scoperta del Bliss Point: quando il cibo diventa piacere
C’è un concetto che mette in comune in maniera funzionale cibo e piacere: il Bliss Point o punto di beatitudine [3].
Il Bliss Point segnala un piacere preciso e totale che scaturisce dal gusto, pervade ogni angolo del corpo e corrisponde al momento sensoriale nel quale il cibo viene apprezzato maggiormente.
Howard Moscowitz è lo psicofisiologo e ricercatore di mercato che ha identificato questo concetto e che, nel corso degli anni ’60 ha contribuito al rilancio sul mercato statunitense di alcuni prodotti alimentari quali i sughi Prego e la bevanda Dr Pepper.
A partire dalle ricerche sulla percezione del dolce, Moscowitz ha approfondito quali tonalità di dolce innescano le risposte più evidenti a livello sensoriale, proponendo a gruppi di consumatori l’assunzione di bevande con diverse concentrazioni di zucchero e mettendo in correlazione la percezione del dolce con la piacevolezza.
Ciò lo ha portato a scoprire una curva che aumenta all’aumentare della quantità di zucchero fino a un picco, il blisspoint per l’appunto.
Il punto di beatitudine, che il nostro organismo raggiunge quando percepisce una determinata concentrazione di grassi, zucchero e sale, non segnala altro che l’ottenimento di un preciso livello di queste sostanze che sono necessarie per il funzionamento e l’equilibrio del corpo.
Perché lo zucchero è fondamentale per il metabolismo del cervello, i grassi rappresentano una riserva irrinunciabile per i periodi di carestia e il sale governa l’equilibrio dei liquidi e il funzionamento renale e cardiocircolatorio.
Poiché il nostro corpo non produce queste sostanze, e in natura l’organismo umano è abituato a reperirne pochi alla volta e mai tutti assieme, l’esperienza del bliss point rappresenta per il cervello un momento topico, una situazione così perfetta dal punto di vista evolutivo, che diventa indimenticabile.
Un’esperienza di questo tipo, a livello cerebrale, attiva la dopamina, capace di cablare le connessioni cerebrali in base alle esperienze che ne determinano il rilascio.
Cibi come droghe?
Volkow e Avena [4] hanno evidenziato come il cibo stimoli quell’area del cervello coinvolta nel piacere e nella dipendenza.
In particolare, ratti con possibilità di assumere grandi quantità di zucchero hanno mostrato comportamenti e modificazioni cerebrali tipiche di quei ratti che assumono droghe; in uno studio del 2015 [5] è stata proposta una lista di 15 cibi che danno “dipendenza”, tra questi vengono citati cioccolato, gelato, patatine e pizza.
Hebebrand [6], tuttavia, sostiene che non ci siano evidenze scientifiche che portano ad individuare un singolo cibo, ingrediente o micronutriente di per sé, come fonte di dipendenza.
Questo autore suggerisce il concetto di “eating addiction” anziché “food addiction” per meglio definire quei comportamenti assimilabili alla dipendenza che hanno a che fare con il cibo.
In particolare sostiene che nel DSM 5 la diagnosi di “dipendenza non correlata a sostanze” lasci aperta la possibilità per identificare la dipendenza da cibo.
Il termine “food addiction” è un concetto che riscuote appeal nella comunità scientifica e tra i pazienti con comportamenti di discontrollo sul cibo, binge eating e obesità.
In ambito scientifico il concetto di food addition diventa sempre più popolare poiché può rappresentare un valido segnale di una psicopatologia sottostante, e uno studio di Brewerton [7] ha mostrato come gli articoli scientifici che trattano di food addiction si siano diffusi dal 2010 in poi, anno di pubblicazione della Yale Food Addiction Scale (YFAS).
Yale Food Addiction Scale per la misurazione della dipendenza da cibo
La YFAS è una scala di valutazione self report composta da 25 item, basati sui 7 criteri sintomatici per dipendenza da sostanze definiti dal DSM-V-TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali).
I sette criteri definiti dalla scala sono:
- Tolleranza, ovvero necessità di incrementare la quantità di sostanza assunta per raggiungere l’effetto;
- Astinenza con presenza di sintomi da sospensione (alterazione dell’umore, ansia, sudorazione);
- Perdita di controllo con consumo di quantità maggiori a quelle previste;
- Desiderio persistente e tentativi falliti di riduzione;
- Tempo speso per ottenere la sostanza;
- Rinuncia alle attività sociali lavorative o ricreative;
- Uso continuato nonostante le conseguenze persistenti.
La definizione di Food Addiction [8] individua alcuni comportamenti specifici quali: mangiare compulsivamente, più velocemente del normale, oltre il “sentirsi pieno” e nonostante le conseguenze negative, senza la sensazione di fame, dedicare molto tempo e pensieri al cibo, pianificare e fantasticare di mangiare da solo, desiderare uno specifico cibo.
Nel linguaggio comune l’espressione “essere drogato di cibo” o “questo cibo da dipendenza” risulta molto frequente e, anche se per certi versi è metaforica, ben individua una speciale relazione che una persona ha con certi cibi.
L’assimilazione tra dipendenza da cibo e dipendenza da alcol e sostanze sembra essere molto utile per il paziente per identificare un comportamento non salutare, esprimere un bisogno di aiuto e una richiesta di trattamento.
Conclusioni
Nonostante il dibattito sia aperto e ci siano autorevoli posizioni contrarie [9], la Food Addiction rappresenta un costrutto utile a livello clinico e terapeutico poiché fa riferimento ad un desiderio irresistibile di cibo, difficile da controllare ed arginare rivolto soprattutto verso cibi particolarmente ricchi di sale, zuccheri e grassi.
Gli attivatori di questo desiderio si possono ritrovare sia negli stati d’animo o nelle emozioni che nelle caratteristiche del cibo stesso.
Se una persona si ritrova ad avere questi episodi e sta cercando di perdere peso, la dieta non può essere la solarisposta. È necessario comprendere le motivazioni alla base della compulsività e stimolare la ricerca dicomportamenti alternativi attraverso un adeguato supporto psicologico.
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- Vanderlinden , Vandereycken W.: Le origini traumatiche dei disturbi alimentari, Astrolabio Roma, 1998
- Smith F, Il cervello dipendente, National Geographic Italia, 2017
- Moss M,”The Extraordinary Science of Addictive Junk Food”. The New York Times Magazine. Retrieved March1,
- Avena N, Rada P, Hoebel B, Evidence for sugar addiction: behavioral and neurochemical effects of intermittent,excessive sugar intake Neurosci Biobehav Rev 2008;32(1):20-39. doi: 1016/j.neubiorev.2007.04.019. Epub 2007 May 18.
- Shulte, Avena, Gearhardt (2015) Wich food may be addictive? The role of processingfat content and glycemic PloS One. Doi:10 1002/journal.pone.0117959
- Hebebrand e al. “Eating addiction”, rather than “food addiction”, better captures addictive-like eating behavior Neurosci Biobehav Rev . 2014 Nov;47:295-306. doi: 10.1016/j.neubiorev.2014.08.016. Epub 2014 Sep
- Brewerton, T.D. Food addiction as a proxy for eating disorder and obesity severity, trauma history, PTSDsymptoms, and comorbidity. Eat Weight Disord 22, 241–247 (2017). https://doi.org/10.1007/s40519-016- 0355-8
- Volkow, , Wise, R. & Baler, R. The dopamine motive system: implications for drug and food addiction. Nat Rev Neurosci 18, 741–752 (2017). https://doi.org/10.1038/nrn.2017.130
- Dalle Grave R, Food addiction, un concetto di scarsa validità e utilità clinica, IJEDO, apr. 2019
Marco Pastorini
Marco Pastorini, PhD. è psicologo e psicoterapeuta, docente presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia STPC di Torino e psicologo presso i reparto e l’ambulatorio di RRF Casa di Cura Habilita Villa Igea di Acqui Terme, nonché psicologo consulente per la chirurgia bariatrica.