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Biostimolanti: cosa sono e cosa fanno
Nel 2019 ha inizio il percorso legislativo con cui l’Unione Europea ha definito i biostimolanti in base alla loro funzione e non alla loro composizione chimica, e il Regolamento 2019/1009 EU Fertilising Products Regulation (FPR) inquadra i fertilizzanti e in cui si annoverano anche i biostimolanti tra le sette categorie funzionali proposte.
I biostimolanti devono rispondere ad alcune caratteristiche e soddisfare almeno uno dei claims individuati: dovranno risultare efficaci nel migliorare l’assorbimento di nutrienti a livello radicale, nell’aumentare la tolleranza agli stress abiotici delle piante o, ancora, nel migliorare alcuni tratti qualitativi del raccolto, per esempio aumentando la concentrazione di composti antiossidanti nei frutti [1].
I biostimolanti, pur afferendo alla macro-categoria dei fertilizzanti, sono un gruppo a sé perché i loro effetti positivi devono essere indipendenti dal contenuto in nutrienti del prodotto stesso. Da questa specificità si evince che i biostimolanti, a differenza di altri fertilizzanti, devono essere somministrati a basse dosi.
Questi prodotti si diversificano anche in funzione del metodo di applicazione: alcuni vengono impiegati come spray fogliare, altri sono somministrati direttamente nel suolo diluiti in acqua, altri ancora possono essere presenti nella concia dei semi.
Gli effetti fisiologici che più spesso si riscontrano nelle piante trattate sono simili; tra i più comuni e per primi descritti troviamo un miglioramento nell’assorbimento e assimilazione dell’azoto, legato a una modulazione positiva dell’attività enzimatica.
In generale, l’impiego di biostimolanti può indurre un maggior accumulo di macro e micronutrienti, un aumento della sintesi di fitormoni o una perturbazione del loro signalling molecolare. Un altro effetto è la protezione dagli stress ossidativi, migliorata dalla produzione di molecole antiossidanti o da una maggiore attività degli enzimi impiegati nel metabolismo delle ROS [2].
Restano da tenere in considerazione gli effetti positivi indiretti per la comunità microbica rizosferica, il cui sviluppo aumenta la fertilità del suolo da cui, ovviamente, traggono beneficio anche le specie vegetali.
Come studiare un effetto biostimolante?
La versatilità nel loro impiego e l’azione biostimolante a largo spettro hanno permesso a questa classe di composti di affermarsi nel mercato, con un valore stimato poco inferiore ai tre miliardi di dollari, di cui più della metà afferente al solo mercato europeo (Market Date Forecast, Market and Markets and Dunham Trimmer).
Il grande interesse commerciale verso i biostimolanti – presumibilmente indice della loro efficacia in campo – non sembra destinato a raffreddarsi, trainato anche da una letteratura scientifica sempre più ricca, che negli anni ha registrato un sensibile incremento di articoli sul tema, pur tuttavia limitandosi a fornire osservazioni sugli effetti benefici di questo o quel prodotto.
Malgrado l’attenzione che la comunità accademica riserva al tema, sono pochi i lavori che analizzano nel dettaglio i meccanismi d’azione sottostanti all’effetto biostimolante, meccanismi che restano elusivi proprio a causa dell’eterogeneità delle matrici di partenza e dei processi di produzione [3].
Per soppiantare la lunga lista di pubblicazioni dal carattere descrittivo servirà cambiare approccio allo studio di questi composti.
Il nuovo approccio dovrà essere rivolto sempre di più alla multidisciplinarietà, con un grande potenziale per le biotecnologie, già di per loro votate ad approcci olistici, grazie alla sempre più diffusa disponibilità di accesso alle analisi omiche.
Il contributo di queste tecniche, come la trascrittomica [4] e la proteomica [5], deve però essere relativizzato, e la comunità scientifica che lavora con i biostimolanti – se vorrà davvero arrivare a definire i meccanismi d’azione biomolecolari che governano la loro azione – dovrà approfondire i risultati che derivano da questo tipo di analisi.
Infatti, i grandi e complessi dataset che vengono prodotti e analizzati in questo modo, purtroppo non portano quasi mai a risultati conclusivi, ma suggeriscono alcune vie dove focalizzare le prospettive di indagini future.
Idrolizzati proteici come biostimolanti: sostenibilità ed economia circolare.
Una delle classi di biostimolanti più importante per numero di formulazioni commercializzate, nonché di attenzione da parte della comunità accademica, è quella degli idrolizzati proteici: prodotti che subiscono una lisi – enzimatica o chimica – che porta alla frammentazione delle proteine in catene peptidiche più corte e/o in aminoacidi liberi.
Le matrici di partenza possono essere vegetali, come residui di erba medica [6], microbiche, spesso derivanti da fanghi che andrebbero smaltiti a fronte di un notevole investimento economico ed energetico [7], oppure animali, ottenute da scarti industriali, come per esempio il collagene del carniccio bovino rimanenza della concia delle pelli [8].
L’idrolisi di questi materiali può essere condotta attraverso l’aggiunta di acidi o basi (chimica) o per mezzo di enzimi (enzimatica), ma in entrambi i casi le miscele proteiche esauste trattate conterranno piccoli peptidi bioattivi e aminoacidi liberi, valorizzando gli scarti che tornano nell’ecosistema come preziose risorse biostimolanti.
L’applicazione degli idrolizzati proteici alle colture, sia annuali che arboree, è quindi un perfetto esempio di rivalorizzazione, tema fondamentale dell’economia circolare.
Inoltre, l’aiuto dato da queste sostanze alla vita del raccolto, si affianca a una possibile riduzione dell’uso di fertilizzanti tradizionali, la cui produzione – per quanto necessaria – è particolarmente energivora.
Aumentare gli strumenti in mano agli agricoltori, fornendo loro prodotti che permettono di diminuire gli input necessari per andare a raccolto prima e con rese migliori, rende più sostenibile la filiera agroalimentare.
È per questo motivo che la grande sfida per i ricercatori in questo campo consiste nell’individuarne la parte (o le parti) bioattiva, arrivando a definire l’efficacia di una o più sequenze peptidiche – se esistono – nell’ottica di migliorare l’efficacia biostimolante degli idrolizzati proteici.
I risultati di queste ricerche sono utili per diminuirne le dosi somministrate, individuare il momento più adatto per la somministrazione o definire quale prodotto fornire a seconda delle condizioni di campo [9].
A seconda della complessità della matrice, però, l’indagine dei meccanismi d’azione può risultare difficile.
Gli idrolizzati proteici derivanti da piante intere, per esempio, non contengono solo oligopeptidi e aminoacidi liberi, ma anche altre molecole – come frammenti di parete cellulare e ormoni – il cui effetto positivo sulla crescita vegetale potrebbe associarsi (o addirittura soppiantare) quello dei peptidi idrolizzati [10].
Dal carniccio alla polpa di soia, quando l’idrolizzato proteico rivalorizza matrici di scarto
Nel laboratorio di Chimica Agraria dell’Università di Verona stiamo studiando i meccanismi molecolari, attivati dai biostimolanti, che provocano una risposta positiva sulla crescita delle specie vegetali.
Nel mare magnum delle formulazioni, tra quelle già presenti in commercio e nuovi prodotti da testare, abbiamo scelto di concentrarci sullo studio di matrici di scarto dall’alto contenuto proteico.
Quella maggiormente caratterizzata è una miscela di oligopeptidi e amminoacidi liberi derivanti dal carniccio bovino [11], un tessuto composto quasi esclusivamente da collagene.
Questo prodotto non solo si è dimostrato efficace nel promuovere la crescita radicale di piante in normali condizioni di crescita, ma è anche in grado di aumentare la resilienza a diversi stress abiotici (Fig.1).
Grazie a una minuziosa opera di frazionamento e purificazione proteica abbiamo definito il profilo dei frammenti peptidici all’interno del prodotto e individuato un singolo peptide in grado di biostimolare la crescita di plantule di pomodoro tanto quanto il prodotto stesso da cui è stato identificato, aprendo così a nuove ipotesi sul reale meccanismo d’azione di questi peptidi animali sorprendentemente efficaci nel promuovere lo sviluppo dell’apparato radicale.
Un’altra matrice in analisi è la polpa di soia, okara in giapponese, scarto della preparazione del latte di soia e del tofu.
L’okara deperisce rapidamente e, per questo, deve venire stabilizzato con processi di stabilizzazione diversi a seconda del suo impiego che, ad oggi, è prevalentemente nel comparto mangimistico.
Negli ultimi anni è accresciuto anche l’interesse verso una sua possibile applicazione da idrolizzato come biostimolante, data la sua discreta concentrazione proteica (attorno al 25% della sostanza secca) che lo rende un buon candidato per questo tipo di prodotti.
Con l’obiettivo di non sprecare preziose risorse di carbonio e azoto organico presenti negli scarti agroindustriali anche le biomasse microbiche sono diventate oggetto d’indagine per un possibile utilizzo come idrolizzati proteici.
Conclusioni
Considerate le numerose sfide che l’agricoltura moderna sta e dovrà affrontare, una fra tutte il costante aumento della richiesta di cibo a livello mondiale, lo studio di queste matrici è tanto affascinante quanto necessario, poiché i biostimolanti hanno dimostrato di poter essere protagonisti nel mondo dell’agricoltura.
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[1] European Union. Regulation (EU) 2019/1009 of the European Parliament and of the Council of 5 June 2019 laying down rules on the making available on the market of EU fertilising products and amending Regulations (EC) No 1069/2009 and (EC) No 1107/2009 and repealing Regula. (2019).
[2] du Jardin, P. Plant biostimulants: Definition, concept, main categories and regulation. Scientia Horticulturae vol. 196 3–14 (2015).
[3] Corsi, S. et al. A Bibliometric Analysis of the Scientific Literature on Biostimulants. Agronomy 12, 1257 (2022).
[4] Santi, C., Zamboni, A., Varanini, Z. & Pandolfini, T. Growth stimulatory effects and genome-wide transcriptional changes produced by protein hydrolysates in maize seedlings. Front. Plant Sci. 8, 1–17 (2017).
[5] Lucini, L., Miras-Moreno, B., Rouphael, Y., Cardarelli, M. & Colla, G. Combining Molecular Weight Fractionation and Metabolomics to Elucidate the Bioactivity of Vegetal Protein Hydrolysates in Tomato Plants. Front. Plant Sci. 11, 976 (2020).
[6] Ertani, A., Schiavon, M. & Nardi, S. Transcriptome-wide identification of differentially expressed genes in Solanum lycopersicon L. In response to an Alfalfa-protein hydrolysate using microarrays. Front. Plant Sci. 8, 1–19 (2017).
[7] Caballero, P. et al. Biochemical and Microbiological Soil Effects of a Biostimulant Based on Bacillus licheniformis-Fermented Sludge. Agronomy 12, 1743 (2022).
[8] Pituello, C. et al. Animal-Derived Hydrolyzed Protein and Its Biostimulant Effects. in 107–140 (Springer, Singapore, 2022). doi:10.1007/978-981-16-7080-0_5.
[9] Ambrosini, S. et al. Evaluation of the Potential Use of a Collagen-Based Protein Hydrolysate as a Plant Multi-Stress Protectant. Front. Plant Sci. 12, 63 (2021).
[10] Ertani, A., Schiavon, M., Muscolo, A. & Nardi, S. Alfalfa plant-derived biostimulant stimulate short-term growth of salt stressed Zea mays L. plants. Plant Soil 364, 145–158 (2012).
[11] Ambrosini, S. et al. Chemical Characterization of a Collagen-Derived Protein Hydrolysate and Biostimulant Activity Assessment of Its Peptidic Components. J. Agric. Food Chem. (2022) doi:10.1021/acs.jafc.2c04379 .
Stefano Ambrosini
Dottorando in Biotecnologie presso il Laboratorio di Chimica Agraria dell’Università di Verona. Il suo progetto di ricerca indaga con un approccio multidisciplinare i meccanismi d’azione di idrolizzati proteici e sostanze umiche impiegati come biostimolanti, caratterizzandone gli effetti fisiologici sulle piante e approfondendo le loro interazioni chimiche, biochimiche e biomolecolari con gli altri elementi della rizosfera.